Si sente tanto dire “le arti marziali hanno come fine la crescita interiore”.
Pochi però hanno chiaro perchè e soprattutto come si realizzi un tale processo di crescita.
Il punto di vista che ora illustrerò comprende tutte le discipline da combattimento, sia quelle tradizionali (arti marziali) sia quelle moderne (sport da combattimento).
Nell’ottica della crescita personale, la differenza tra le due categorie sta più nell’insegnante che nel conenuto (principi o regolamenti che le caratterizzano).
Mi spiego meglio. Spesso si ritiene che l’arte marziale tradizionale sia più educativa rispetto agli sport da combattimento. Quando questa differenza risulta evidente, è da imputarsi al Maestro. Un buon Maestro, quale che sia il suo percorso in termini di discipline praticate, ha compreso che lo studio del combattimento è solo un mezzo, non il fine della sua ricerca. Chiunque inizi un percorso marziale, lo fa spinto da motivazioni diverse, che a volte sono molto banali mentre altre decisamente più profonde. C’è chi vuole semplicemente imparare a difendersi, chi vuole acquisire maggiore sicurezza in se stesso e chi non sa esattamente quale sia il fine della sua ricerca, ma sente che gli manca qualcosa e sa che potrebbe raggiungerlo seguendo la via marziale. Un buon Maestro lo sa, perchè questa via l’ha percorsa. Non ci si improvvisa in questo e chi ci prova sbaglia. Piuttosto che improvvisarsi Maestri, è sicuramente meglio considerarsi allenatori.
Torniamo al perchè ed al come avvenga questa spinta alla crescita dell’individuo nel percorso marziale. Il combattimento, in termini istintivi primordiali (cervello “rettile”) ci mette di fronte alla vita e alla morte, anche se simbolicamente. Ogni confronto in combattimento, simula uno scontro di sopravvivenza, anche quando regolamentato. A livello interiore, le forze che si muovono sono le stesse. Le reazioni istintive (lotta, fuggi, blocco) tanto decantate e studiate, vengono scoperte, vissute, gestite ed elaborate. Con esse vengono messe a nudo tutte le emozioni ed i trascorsi dell’individuo, che si trova ad affrontare un avversario molto più ostico di quello che ha di fronte, cioè quello che ha dentro. E’ la lotta interiore che deve vincere, ancor più che quella con l’avversario. Alcune volte, la vittoria interiore può addirittura passare per la sconfitta esteriore. Come si dice: “a volte ho vinto, le altre ho imparato”. Non è un elogio alla sconfitta quello che che scrivo con questo articolo, ma anch’essa ha la sua utilità, più spesso di quanto si pensi. Chi solo vince, non può sapere quali forze sia necessario evocare ed utilizzare per superare la sconfitta, per rialzarsi e per tentare di vincere lo scontro successivo.
Il dojo, il ring, la gabbia, mettono a nudo tutto di noi. Sono lenti di ingrandimento che ci permettono di vedere nostri frammenti interiori che a stento noi stessi conosciamo. Loro mostrano, poi sta a noi decidere cosa farne di ciò che abbiamo visto. E’ a questo punto che si decide se crescere, se migliorarsi.
Queste “lenti” hanno diversi fattori di moltiplicazione. Entrare in una gabbia per una gara importante, ovviamente, avrà un potere di “ingrandimento” maggiore, rispetto ad una sessione di combattimento in palestra. Cionondimeno, per alcuni sarà più utile la via più intensa e rapida, per altri una via più leggera e lunga, è una questione soggettiva. L’mportante, quale che sia la via, è non sottrarsi al confronto con se stessi. Anche nel semplice lavoro sul tatami in palestra, l’avversario più ostico sarà quasi sempre il più utile a migliorarsi a livello interiore (oltre che tecnicamente). Nessuno deve dimostrare nulla a nessuno, se non a se stesso; comprendere questo è fondamentale per vivere il percorso come crescita anzichè come obbligo. Comprendere e in alcuni casi superare i propri limiti (fisici e mentali), scoprire i propri lati oscuri ed “illuminarli”, affrontare i propri demoni e sconfiggerli, questo dovrebbe essere il fine. Altrimenti, si rimarrà dei semplici combattenti anzichè divenire dei guerrieri.
La differenza tra i due è semplice: quello che per uno è il fine, per l’altro è il mezzo.